1763 (Sec. XVIII)
mm 452 x 641; spess. 1,7-1,9
Osservazioni:
Osservazioni: L'attribuzione del Tempio a Ercole era stata fatta dallo storico Volpi a seguito del ritrovamento dell'iscrizione “Herculi sacrum” rinvenuta nei pressi dell'edificio, ma che non aveva trovato conferma nei documenti, come indica il titolo stesso dato alla tavola. Secondo Coarelli si doveva piuttosto trattare di un tempio dedicato a Giunone Moneta (
Lazio 1982, p. 264).
Gran parte della serie delle
Antichità di Cora è dedicata a questo tempio dorico: dalla tav. IV alla X, ma anche la vignetta, posta alla fine del testo introduttivo, riguarda la dimostrazione del sistema di copertura del tempio (cat. 60), così come il piedistallo ritrovato nella casa di Antonio Corbi nella tav. III (cat. 64), che viene riprodotto anche per evidenziare la diversa successione dei triglifi nell'architrave del pronao del tempio, prova che attesta la mancata risoluzione del problema angolare nel tempio dorico. Le antichità di Cori erano note già in età rinascimentale come documentano disegni, stampe e raccolte epigrafiche redatte tra Quattrocento e Cinquecento, periodo in cui cominciò l'interesse e lo studio di quanto si andava scavando nell'area di Cori e in particolare nella città antica. In numerosi testi vengono descritte le scoperte di statue quali quella dei Dioscuri o della Minerva Capitolina, scoperta a Cori nel 1583 e collocata nel Palazzo dei Conservatori già nel 1593 (Palombi 2012, p. 8); a cui poi si aggiungono documenti e relazioni, e tra queste è senz'altro interessante quella che riporta il parere dell'umanista Giovanni Battista Veralli, che raccomandava al cardinale Alessandro Farnese di fare le finestre e le porte del nuovo Palazzo secondo il modello del tempio di Ercole a Cori (Campbell-Nesselrath 2006, p. 26).
Anche Winckelmann fa riferimento al tempio di Cori in una lettera inviata nel settembre del 1760 all'erudito ed esperto di medaglie Jean-Jacques Barthélemy: “En parcourant les Monumens de M. le Roy j'aurois souhaité qu'il ait vu les temples di Piesti ou Pesto, et pour la troisieme Epoque de l'Ordre Dorique le Prostile tout entier d'un temple Dorique à Cori. Je le tiens copié d'un dessein du grand Raphael quand il étoit plus entier avec toutes les mesures” (
ibidem, p. 16). Winckelmann fa riferimento al codice del barone Stosch, in cui insieme ai disegni di alcuni templi a Roma erano presenti anche quelli del tempio di Ercole e dei Dioscuri, disegni all'epoca attribuiti a Raffaello, ora invece a Giovanni Battista da Sangallo (Codex Rootstein-Hopkins, Victoria and Albert Museum, collezione RIBA Library), fogli databili al 1520. Un dato significativo per ipotizzare che in qualche modo anche Piranesi fosse a conoscenza di questo codice, all'epoca conservato a Firenze, è costituito da alcuni disegni che mostrano, pur nelle dovuta differenza tra lo schizzo e la stampa, una qualche affinità nell'impostazione della veduta del tempio. A tutto questo si può aggiungere inoltre la conoscenza di Giambattista con Barthélemy già dai tempi della preparazione delle
Antichità Romane (vedi Mariani 2014, p. 24). Piranesi dedica tutto il capitolo terzo dell'introduzione alla descrizione delle tavole che illustrano il tempio, ed entra in polemica con l'erudito gesuita Giuseppe Rocco Volpi che, nel quarto volume del suo
Vetus Latium Profanum, pubblicato nel 1727, aveva datato il monumento basandosi soprattutto sulla presenza di alcuni vocaboli latini presenti nella scritta sull'architrave della porta della cella (cat. 71), vocaboli che, secondo il gesuita, erano in uso “nei primi secoli della Romana Repubblica”. Giambattista nel testo introduttivo riporta una serie di argomentazioni tecniche ed erudite a fronte delle quali cita i passi di Vitruvio e poi, per convalidare quanto sostenuto, sempre in contrasto con Volpi, riproduce alcune lapidi spiegando come fosse erronea una datazione basata sull'uso di determinati vocaboli latini.
Il tipo di cornici e la scritta sull'architrave della cella, dedicata ai duumviri M. Manlio e L. Turpilio che fecero realizzare l'opera, e i materiali rinvenuti datano l'edificio nella seconda metà del II secolo a.C. (Palombi 2013, pp. 80-81).
Le tavv. IV e V (cat. 67) sono delle vere e proprie
Vedute come spesso accade anche nelle opere realizzate con un intento didattico, come appunto nelle
Antichità Romane. Nella tav. IV l'incisore colloca il tempio all'interno del contesto urbano così come si presentava ancora nel Settecento, prima che il campanile della chiesa di San Pietro venisse demolito nel 1842 per essere ricostruito al di fuori della cella del tempio, dove era collocato originariamente (
ibidem, 81). Durante l'ultima guerra mondiale la zona dell'acropoli è stata bombardata pesantemente e ha subito notevoli danni nell'abitato; la chiesa di San Pietro è stata completamente rasa al suolo, al contrario del tempio che ha mantenuto quasi intatto il pronao dorico tetrastilo. Solo nel 2010, dopo una serie di interventi protrattisi negli anni, sono finiti gli ultimi lavori di scavo, restauro e messa in sicurezza dell'area circostante il monumento.
L'inquadratura del tempio è presa dal lato sinistro, a differenza di quanto avviene per la stampa di analogo soggetto inserita nelle
Vedute di Roma (
M-1400_784), a cui lo stesso Piranesi fa riferimento nel testo introduttivo: “Veggasi le Tavole di quel tempio da me date in luce con le vedute di Roma”, ponendosi quindi in questo testo in una dimensione critico-filologica nuova rispetto alle introduzioni pubblicate fino ai primi anni Sessanta. Altre citazioni sono poi tratte dalle tavole della
Magnificenza e Architettura de' Romani per documentare l'originalità dello stile etrusco-tuscanico rispetto all'architettura greca (cfr. Salinitro in Mariani 2017, catt. 65-68); in particolare si sofferma sull'uso dell'entasi, vale a dire la rastremazione dei pilastri e delle colonne verso l'alto, tipica anche dello stile dorico. Anche se non arriva a negare che il tempio sia dorico greco cerca comunque di mettere in evidenza, nelle tavole successive, come alcuni elementi tecnico-architettonici fossero già in uso nelle architetture antiche del Lazio. Rispetto all'esemplare delle
Vedute questa tavola pone in primo piano il pronao del tempio con le colonne scanalate, particolare questo che aveva colpito negativamente Winckelmann, ma non rinuncia a inserire scene di vita quotidiana tra le casupole che circondano il monumento. Sono presenti le solite figure di mendicanti e la donna che apre la porta, particolare questo che si ritrova anche in altre vedute successive, e soprattutto in un disegno coevo attribuito a Charles-Louis Clérisseau, ora al Museo Poldi Pezzoli, che ritrae il sito in modo molto simile alla stampa. Lo stesso spunto si ritrova ancora in un acquerello di Jakob Philipp Hackert del 1783 (Getty Museum).
La matrice è incisa ad acquaforte con interventi a bulino, in particolare lungo le colonne per accentuare il contrasto tra la zona illuminata dalla luce che invade la parte superiore della figurazione, e quella in ombra della casupola in primo piano. Mentre, a sinistra sul rame, i toni delicati dell'albero che fa da quinta sono ottenuti con una morsura leggera. Nella parte a sinistra tra la prima e la seconda colonna si notano delle ribattiture del rame, forse dovute alla composizione del metallo, una forma simile di martellatura è stata rilevata anche sulla matrice della
Caduta di Fetonte (Giordani Aragno 1979, p. 53). Sulle stampe consultate questi segni sono visibili: nell'esemplare della collezione ASL, dove si vedono piccoli tondi impressi sulla carta, come a secco, e in quella conservata nell'Accademia di Brera, tiratura di Francesco a Parigi, in cui si notano ombre leggere d'inchiostro in corrispondenza delle battiture del rame.
L'esemplare Corsini è invece ben stampato su una carta filigranata con giglio entro doppio cerchio, che presenta una buona inchiostratura senza evidenti correzioni.