1769 (Sec. XVIII)
mm 251x391; spess. 1,6-1,8
Osservazioni:
Osservazioni: Si tratta di uno dei camini più riccamente ornati della raccolta, dove l'affastellamento delle citazioni dall'antico fa perdere all'insieme della “piccola architettura” i suoi connotati classici, a favore piuttosto di un gusto manierista o barocco nel quale molto spesso Piranesi si compiaceva.
Al centro del fregio tre maschere sceniche il cui riferimento corre all'opera di Ficoroni (1736) assai consultata da Piranesi. Nel cammeo o medaglia che le affianca sono raffigurate le tre Grazie, derivate dall'edizione di B. de Montfaucon su
L'Antiquité expliquée et représentée en figures, Tomo I (1722), tav. CX, della quale Piranesi illustra entrambi i lati, come osserva Battaglia (1994, p. 218), secondo l'uso delle pubblicazioni antiquarie. Le Grazie rappresentate sono da mettere in relazione anche ai gruppi scultorei del Museo Pio Clementino, Galleria delle Maschere (Panza 2017, p. 158). Il fregio prosegue lateralmente con la rappresentazione di eroti che sacrificano tori affrontati; la scena si ritrova in bassorilievi di epoca romana quali ad esempio il rilievo proveniente dal Tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare, appartenuto alla collezione Farnese, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Merita attenzione il dettaglio del capitello con due teste di ariete affrontate le cui corna formano le volute dell'elemento architettonico di ordine ionico (come dice Piranesi nel
Ragionamento apologetico, p. 3; cfr. cat. 86). Il disegno del capitello è tratto dall'ara funeraria di
Volusia Arbuscula, conservata a Palazzo Farnese al tempo di Piranesi, trasferita a Napoli con i marmi Farnese nel 1796, oggi al Museo Condé di Chantilly, molto disegnata dagli artisti nel corso dei secoli XVI e XVII, già inserita da Piranesi nella tavola XXXV della
Magnificenza nel 1761 (cfr. Gasparri in Mariani 2017, catt. 49 e 69; per un altro frammento tratto dalla stessa ara cfr. cat. 96). Anche l'iconografia presente sui montanti, ossia il serpente che si avvinghia attorno al tripode di Apollo con il suo
omphalos, è tratta dalla stessa ara dove pure il tripode faceva da sostegno al capitello. L'elemento del serpente attorno a un pilastro è comunque ricorrente nei bassorilievi romani; si ricorda ad esempio la colonna ritrovata sull'Isola Tiberina “ov'era anticamente il Tempio di Esculapio” illustrata da Piranesi nell'opera
Vasi, Candelabri, Cippi, 1778, I, tav. 40 (rame
M-1400_546), all'epoca presso Tommaso Jenkins.
La grata del parafuoco è ornata con un putto tra girali di acanto, a memoria del sarcofago imperiale di Santa Costanza, la “Grand'Urna di porfido” i cui rilievi furono accuratamente disegnati da Piranesi nelle
Antichità Romane (1756, II, tavv. XXIV-XXV, in Mariani 2014, catt. 103-104).
Da un punto di vista tecnico la lastra è incisa ad acquaforte e ritoccata a bulino; a causa probabilmente di una concomitanza tra una vernice di preparazione non idonea e un acido aggressivo, la morsura della matrice all'acquaforte è avvenuta generando una morfologia di segno “a bolle”, che si traduce in stampa in una raffinata morbidezza d'insieme. Una grande fascia d'ombra, tecnicamente resa con la doppia morsura, separa l'imbocco della camera da fuoco, investito dalla luce, dal fondo di questa, sul quale si imprime anche il profilo della protome leonina.
Nella prima edizione BAV, R.G. Arte Archeologia la tavola, sebbene compaia in questo stesso ordine di successione, non era ancora stata numerata.
In Focillon 1967, p. 354, si dice a proposito di questa stampa: “Nell'edizione Firmin Didot questa tav. diviene la n. 52”, mentre Focillon la considerava tavola
6. Ma sulla matrice non risulta abrasione da poter essere messa in relazione a un numero inciso a bulino. Né le edizioni storiche consultate danno adito a fraintendimento, poiché la tavola compare sempre, quando numerata, col numero
52 in basso a destra all'interno della cornice. Solo Ashby riordinò la sua collezione di stampe sciolte sulla base delle indicazioni di Focillon, posizionando il foglio con questo camino al sesto posto della raccolta. Si noti in basso a destra, affianco alla firma, inciso leggero a puntasecca il numero romano
XIX, che non esiste nelle edizioni settecentesche consultate e si evidenzia invece nell'edizione Firmin Didot (1836).