1750 (Sec. XVIII)
Osservazioni:
Osservazioni: Anche in questo caso, come nel precedente le zone in sottolivello dell'incisione erano state colmate con stagno. In data ignota i riempimenti a stagno sono stati per la maggior parte eliminati e nella parte inferiore destra la ripresa dei segni incisi ha provocato tagli passanti. Nell'angolo inferiore sinistro del verso, la matrice presenta un rinforzo di ottone saldato a stagno, usato per sanare una cricca passante, che presenta segni incisi a tecnica diretta. Si osserva, inoltre, che graffi che percorrevano tutta l'altezza della matrice sono stati eliminati meccanicamente e i segni incisi sono stati ripresi con tecnica diretta. Sono visibili varie ribattiture e alcune bruciature d'acido sulla parte alta della lastra, presumibilmente da attribuire al momento della morsura del recto.
Il verso di questa matrice, con
La caduta di Fetonte, si collega con quello della matrice
M-1400_699.
La
Caduta di Fetonte è un’opera entrata a far parte del ricco catalogo delle incisioni di Piranesi in epoca relativamente recente. Si tratta infatti di un’incisione ad acquaforte su rame che l’autore non diede mai alle stampe e che rimase celata per più di due secoli sotto strati di inchiostro sul verso di due matrici delle celebri Vedute di Roma:
Veduta della Basilica di Santa Maria Maggiore (
M-1400_699) e
Veduta della Piazza di Monte Cavallo (presente scheda di catalogo), databili al 1749-1750.
Negli anni Sessanta del secolo scorso Maurizio Calvesi (direttore della Calcografia Nazionale dal 1964 al 1967) e Augusta Monferini intrapresero un imponente lavoro di revisione del fondo di matrici di Piranesi in vista della riedizione italiana del volume di Henri Focillon dedicato al grande incisore veneto. Nel compiere questo lavoro di revisione delle lastre di rame di Piranesi, gli studiosi notarono, in due momenti successivi, che sul verso di due matrici di Vedute di Roma,
Veduta della Basilica di Santa Maria Maggiore e
Veduta della Piazza di Monte Cavallo, come abbiamo detto databili al 1749-1750, erano nascoste due figurazioni incise. Fecero rimuovere gli strati di inchiostro con un restauro e una pulitura più energica (che in genere non si faceva sui rovesci, in quanto non interessavano nel processo di stampa; quello che doveva essere ben pulito per raccogliere l’inchiostro era il recto della matrice) e compresero in seguito a questa pulitura che le due rappresentazioni in realtà, se congiunte sul lato lungo, davano luogo a quella che in origine doveva essere una grande composizione incisa su un’unica lastra. Si trattava di una delle fantasie architettoniche cui Piranesi si dedicò alla fine degli anni Quaranta del Settecento (si pensi all’incisione nota come
Parte di ampio magnifico Porto e alle
Carceri d’invenzione, per l’appunto architetture create dalla sua fervida immaginazione), abbandonata dall’autore e mai pubblicata.
Fu evidente a Calvesi fin dal momento iniziale della scoperta che quei rami denunciavano un fallimento tecnico dell’artista, che nel momento di massima sperimentazione di acidi e vernici di protezione per l’acquaforte, coincidente con il periodo in cui l’autore lavorava come ricordato alla prima edizione delle Carceri, aveva protratto i tempi di morsura nel bagno acido (l’acquaforte propriamente detta) oltre i limiti di salvaguardia del tracciato segnico, e di conseguenza aveva bruciato l’inciso (si deve ricordare che Piranesi raggiungerà la sua maturità tecnica portando a perfezionamento l’equilibrio alchemico tra aggressività dell’acido di morsura e potere coprente della vernice a base di cera, solo alla fine degli anni Cinquanta, un decennio dopo).
Ma studiando l’iconografia della rappresentazione Calvesi si rese conto che doveva esserci un altro motivo per il quale Piranesi aveva deciso di non riprendere il lavoro, cioè di non tentare neanche di recuperarlo, tanto meno di darlo alle stampe: identificò nel soggetto della composizione il mito di Fetonte che, impossessatosi del carro del Sole (suo padre) e non essendo in grado di governarlo, avvicinandosi troppo alla Terra, l’aveva ridotta in siccità. Allora Zeus ebbe pietà degli uomini e lo folgorò facendolo cadere nel fiume Eridano, ripristinando così lo stato di grazia e armonia nel creato.
Calvesi si accorse che tale iconografia era stata affrontata da Pranesi con una ricchezza di simboli e richiami (il sole nero, l’astrolabio, lo zodiaco, la colonna coclide) che riconducevano tutti alla cultura e all’ambito della Massoneria. I rapporti di Piranesi con la Massoneria sono poi stati confermati e documentati anche dalla letteratura più recente sull’autore. La Massoneria si era diffusa in Italia all’inizio del Settecento come derivazione di quella inglese. Alla metà degli anni Quaranta del Settecento la Massoneria raccoglieva quelle tensioni ideali di rinnovamento cui Piranesi, inebriato del mito di Roma e della sua Storia ideale, si faceva interprete, e non era stata ancora assorbita dalla politica, cosa che avverrà sul finire del Settecento dopo la Rivoluzione francese e con Napoleone. Ma Piranesi agiva a Roma, nella città del papa, che con privilegi e
approbatio dava il permesso di stampare le sue opere nello Stato pontificio: non poteva permettersi di sfidare quel sistema, neanche in maniera allegorica.
Per entrambe queste motivazioni (un lavoro non riuscito tecnicamente perché il controllo degli strumenti e metodi d’incisione si era dimostrato ancora acerbo nel dare seguito all’ardore degli ideali; e un lavoro con allusioni a un auspicato ribaltamento dell’ordine politico costituito), l’artista decise di abbandonare il soggetto; tagliò la grande lastra in due metà e sull’altra parte incise le due Vedute di Roma dalle quali guadagnò quella fama per cui ancora oggi è soprattutto ricordato.